Negli ultimi anni, pensare di essere intollerante a un qualche alimento va molto di moda.
È molto faticoso chiarire cosa la medicina abbia stabilito realmente in materia di intolleranze. In primo luogo, precisare che è più corretto parlare di reazioni avverse. Anche perché le cosiddette “intolleranze” realmente riscontrabili tramite test si contano sulle dita di una mano.
A parte quella al glutine, c’è quella al lattosio, dovuta nella maggior parte dei casi al deficit dell’enzima lattasi e diagnosticabile con il test del respiro, oppure quella al nickel, un elemento contenuto per esempio nei cereali integrali, nei legumi, nei pomodori, nella frutta secca o nel cioccolato.
Per diagnosticare altri possibili alimenti dannosi, l’unica strada che abbiamo è quella della dieta di esclusione.
Consiste nel seguire, per 2 settimane o più, una dieta a basso contenuto di quegli elementi che più frequentemente danno reazioni avverse, come latte (è permesso quello di capra e di asina), crostacei, ceci e lenticchie, uova, agrumi e fragole, cacao e derivati, frutta a guscio, carne bovina e avicola e i prodotti industriali.
Se i sintomi migliorano, allora si procede con la reintroduzione di un alimento per volta, per vedere se compare il disturbo. Serve molto tempo e l’affidabilità è messa in discussione dai molti fattori confondenti (compreso l’effetto placebo), ma al momento non esistono altre strade.
In ogni caso non è affatto detto che un’eventuale intolleranza sia “a vita”. Ma non è facile abbattere le convinzioni delle persone che credono di essere allergiche a qualche alimento.
Basta un sintomo aspecifico, come il mal di testa, la difficoltà a concentrarsi o un gonfiore addominale, per far scattare l’allerta e andare a fare un test sotto casa, spesso gestito da personale non medico.
Il risultato, di solito, è una lunga lista di cibi da evitare in cui ricorrono il lievito, i latticini o il glutine, ma nessuna certezza di avere davvero risolto il problema del mal di testa o del gonfiore.